Sguardo furbo, capello rasato, sorriso malizioso e orecchino d’ordinanza. Marco Confortola si presenta così, ma dietro tanta spavalderia si cela un uomo ed un alpinista con la sua storia i suoi sogni e le sue paure. Maestro di sci, guida alpina e tecnico del soccorso alpino, lo abbiamo incontrato per voi presso l’aviosuperfice di Caiolo dove presta servizio nell’equipe del 118. Sei nato e cresciuto a Valfurva, praticamente in mezzo alle montagne. Quale è stata, però, la prima uscita alpinistica che ti ricordi? «A 4 anni mio padre mi portò in cima la Cevedale, è stato amore a prima vista – ci ha raccontato -. Poi con il CAI Valfurva ho fatto altre escursioni, ma a 11 anni ricordo ancora la prima volta sulla nord della Cima Piazzi. Ero con Angelo Andreola e su quel ghiaccio vivo avevo una gran “fifa”». Se dovessi parlarci della tua Valle, quali sono gli itinerari più suggestivi? «Per quanto riguarda le scialpinistiche è difficile dirlo. Amo l’inverno, quando una spessa coltre di neve ovatta le cime, i pascoli, i boschi. Il fruscio delle pelli sulla neve è l’unico rumore. Creare la propria traccia dove nessuno è passato soddisfa la mia voglia di avventura, come trovare la giusta meta tra le mille possibili appaga il mio istinto di esplorare. In Valfurva gli itinerari possono essere tranquilli come il Sobretta o grandiosi come il San Matteo, ma il bello dello scialpinismo è che la cima non deve per forza essere lo scopo della gita: spesso mi capita di sceglierla solo per fare una bella sciata in neve polverosa. Qui si ha solo l’imbarazzo della scelta: uno, ad esempio, potrebbe trascorrere una settimana al Branca e fare ogni giorno una cima diversa. D’estate, invece, suggerirei creste aeree e spettacolari come Suldengrat, Beackmanngrat e Hintergrat oppure le 13 Cime. Per chi non è proprio un alpinista provetto, quello che noi consideriamo il “battesimo dei ramponi” è invece la salita al Cevedale. Messa in archivio questa prima ascesa, si passa poi a San Matteo, Tresero e Ortles». Negli ultimi anni le vette di casa sembrano però starti strette. Hai in curriculum ben 5 cime himalayane.. Nel mirino vi sono quindi i 14 “ottomila”? «Sinceramente non lo so. Come ogni alpinista vivo alla giornata. Quello che so è che per me questo è il momento degli 8000. Da tempo subivo il fascino di queste vette. Quando nel 2004 Agostino da Polenza mi ha dato la possibilità di provare l’ascesa a Everest e K2 non c’ho pensato un attimo e ho preso l’occasione al balzo». Oltre ad essere alpinista, credi molto nel potenziale dello sport. Parlaci della tua associazione? «A mio modo di vedere, c'è una stagione per ricevere e una stagione per dare. Lo sport ha avuto un ruolo determinante nella mia vita: mi ha permesso di crescere con valori solidi e improntati. Valori come il rispetto degli altri, il sacrificio e anche la capacità di godere di quello che facevo. Devo questo anche a tutte quelle persone che, quando ero giovane, hanno dedicato tempo, energia e passione per aiutare me e i miei compagni a scoprire lo sport. Per questa motivo oggi, da alpinista conosciuto, voglio poter trasmettere ai ragazzi quella stessa disponibilità e passione che ho ricevuto dagli altri. Questa la ragione per cui nel 2005 è nata l'Associazione “Sport è vita”». Per comunicare con i giovani ti sei saputo proporre in modo mediatico. Ciò ti ha inevitabilmente portato a confrontarti con i media e quindi ad oneri ed onori. Tra tanti complimenti, non sono mancate le critiche. Quest’ultime, quanto ti hanno fatto male? «Come in ogni ambiente c’è chi tifa per te e chi ti rema contro. Posso solo dire che sono sempre stato sincero in ogni cosa che ho detto e fatto. In giro, invece, c’è molta gente invidiosa. Chi mi critica è anche chi vorrebbe che si parlasse di più di montagna per poi saltare addosso a chi lo fa. Questa gente dovrebbe impiegare meglio le proprie energie, e magari fare qualcosa per i giovani che forse è meglio». Già che ci siamo, perché non togliersi qualche sassolino dalle scarpe: cosa pensi di quelli che più che alpinisti amano definirvi “pesta neve”? «Per carattere sono uno che tira dritto per la sua strada. Posso solo dire che con gli sci penso di avere detto la mia. La discesa dall’Ortles, per il momento, l’abbiamo fatta solo in due. Che poi per salire una vetta himalayana non serva essere alpinisti sono solo chiacchiere da bar. Sull’Annapurna ci siamo trovati su una parete verticale e abbiamo istallato una corda fissa con chiodi a 50m. Vorrei vedere molti “boss” della falesia in simile condizioni». Pochi mesi fa hai presentato la tua prossima spedizione. Con il più difficile degli “Ottomila” hai un conto aperto: «Al K2 ci sono già stato ed ho sofferto moltissimo il non essere arrivato in cima. Con la consapevolezza che non sarà facile, questa volta ci riuscirò. Quella montagna, dal basso, l’ho già vista troppe volte. Mi sento particolarmente onorato e orgoglioso per la fiducia che il Credito Valtellinese ripone in me e farò il possibile, mettendo a frutto la mia esperienza e le mie capacità d’alpinista, per portare in cima al K2 il nome della banca di casa». In soli 3 anni hai avuto diverse esperienze himalayane. E’ vero che le vette più gettonate sono vere e proprie discariche a cielo aperto? «La situazione non è più così drammatica. In passato le spedizioni commerciali hanno lasciato montagne di rifiuti, ma fortunatamente le istituzioni locali si sono attivate per ripulire quelle zone. Il governo cinese, ad esempio, paga un tot agli sherpa che riportano a valle il lerciume che trovano lungo la marcia. Nella mia ascesa all’Everest, infatti, mi è capitato di trovare solo due bombole abbandonate». Oltre ai governi anche voi alpinisti vi siete attivati per dare a quella gente e a quelle zone un futuro migliore «Personalmente collaboro con Eco-Himal, un’associazione di volontariato ONLUS creata per promuovere la difesa delle aree himalayane attraverso la cooperazione con le popolazioni che vi abitano. L’idea è di favorire iniziative che possano migliorare le condizioni di vita nelle aree più remote. Ora ad esempio stiamo raccogliendo fondi per comprare delle pecore e dare a questa gente la possibilità di vivere di pastorizia». Maurizio
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